Ramadan Karim e Shabbat Shalom

Maledetta primavera

Dimenticata, sepolta e resuscitata colonna sonora di un venerdì sera, gli ultimi cinquecento metri mi separano dalla fine della mia giornata al ritorno dalla consueta “corsetta della salute” – qualche volta corsa, solitamente per sfangare il semaforo finale. L’ultima fatica della giornata ha come sottofondo impressioni d’infanzia, sere tiepide di inizio di stagioni che sono passate molto in fretta. Anche questa è una sera tiepida, niente a che vedere con le primavere del sud, ma noi ci accontentiamo.

L’incrocio fra la Blissestraße e la Berliner Straße è un incrocio come tutti, noioso come tutti, pieno di storie, come tutti. E come tutti i crocevia importanti, è protetto da un lar vialis – moderno, munito di iPad e altoparlante portatile. È da quest’ultimo che proviene il gorgheggio di Loretta Goggi. Che fare?

Cantare e camminare. Cantare di buon grado … Seee per innamorarsi basta un’oraa

Camminare a passo sostenuto verso la serata imminente dopo la giornata stressante.

Memorie dimenticate, emozioni ritrovate.

No.

Mi fermo. Guardo lo spartitraffico. Come ogni sera lo spirito del crocevia accompagna l’andirivieni dei boys in carriera con le cartelle, delle mamme alla guida di biciclette da guerra ripiene di bambini e derrate alimentari, e degli sportivi-per-caso, come me, che ritornano dal parco vicino.

Dietrofront. Questa volta gli parlerò. Non avevo mai osato. Ascoltavo e ammiravo sempre a rispettosa e timida distanza il suo repertorio infinito. Neanche quando al pubblico viandante presentò ha Tikwa mi fermai.

Questa volta si.

Mi avvio decisa verso il semaforo, attraverso. Parlerò con il lar vialis.

Presa l’avviata il resto viene da sé; mi sento dire in tedesco “Buona-sera-mi-scusi-ma-come-mai-lei-conosce-Maledetta primavera-e-lei-lo-sa-che-fu-la-colonna-sonora-della-mia-infanzia?

Il nume risponde in italiano “non sapevo, signora, la canzone me l’ha mandata mia sorella dal Sudamerica, esiste una versione in spagnolo”. Così si colma una mia lacuna culturale: Goggi è tradottissima e amata nel mondo ispanofono. E non solo. Ma questa è un’altra storia.

Ci presentiamo e apprendo che il lare si chiama David, nome biblico.

Molti ebrei tedeschi si rifugiarono in Sudamerica dove si unirono a altri rifugiati libanesi o siriani, a loro volta emigrati dal Medioriente. Le anime migranti, si sa, si ritrovano ovunque.

David è riemigrato nel paese di origine dei suoi nonni profughi portando con sé un paio di geni mediorientali. E ora echeggia con voce roca gli hit della storia musicale in svariate lingue. Ma non è questo a farne un personaggio speciale. E neanche i riccioli da Chassidim che pendono dalla testa per il resto quasi spoglia. Neanche la Kippà.

David, il DJ dello spartitraffico dal repertorio infinito con i vestiti lisi – ha il modo di fare di un sufi, qualuno lo definisce con un’ombra di biasimo un matto – ogni tanto lascia il palcoscenico al centrostrada e fa presenza davanti allo shisha bar o alla galleria d’arte sotto casa mia. Saluta le bellezze arabe davanti al locale, Salam aleikum! Loro gli vogliono bene. I giovani (artisti?) parcheggiati davanti alla galleria invece lo evitano, probabilmente imbarazzati al confronto con l’eccentricità genuina, che, inevitabilmente, gli rovina l’aura woke.

Prendo coraggio e continuo: “Ma lo sa, io da ragazza ho studiato l’ebraico alla comunità israelitica di Napoli – e l’ho dimenticato”

David, sguardo serio, tira fuori l’altoparlante di scorta, digita sul tablet e intona: ha Tikwa: “È adesso, l’inizio dello Shabbat. Shabbat Shalom”.

Shabbat Shalom” replico io.

Così mi ritrovo a cantare quello che mi ricordo di ha Tikwa in tuta da ginnastica con il gilet imbottito color fucsia accanto a un sufi ebreo sudamericano sullo spartitraffico di una strada del centro di Berlino un venerdì sera di primavera. I viandanti continuano attraverso il quadrivio, un tassista saluta David dall’auto in corsa. La musica finisce. Shabbat Shalom.

Non è arrivata la Polizia.

Nessuno ci ha picchiato.

La sera è balsamica e tranquilla. Allontanandomi lo sento ripetere a sé stesso e al mondo: La signora ha imparato l’ebraico a Napoli”.

David è povero e malato. Vive in un ostello nella stessa strada nostra. Me l’ha detto Yasin. Forse è proprio per questo che è diventato lo spirito tutelare di un crocevia.

Yasin mi ha detto una volta “gli ebrei sono come noi, apparteniamo alla stessa famiglia”. Lo ha detto con il tono con il quale si parlerebbe di lontani cugini forse-un-po‘ bizzarri-ma-dopotutto-okay.

Gli Arabi e gli Ebrei sono semiti. Se vai in Siria non distinguerai i musulmani dagli ebrei e dai cristiani. Sono tutti uguali. E in Palestina ci sono anche i palestinesi ebrei. E in Israele ci sono anche gli israeliani palestinesi. “In Siria ci sono i cristiani più cristiani di tutti, i cristiani veri”.

I Siriani hanno trovato rifugio e protezione nella terra che un tempo mise il resto del mondo a ferro e fuoco, rifletto saltellando verso casa fra le pietre d’inciampo.

Anche i miei vicini festeggiano lo Shabbat. Hanno illuminato il barbecue sul terrazzo. Il loro cane è la persona più simpatica della zona.

Chiamo in video Yasin. Sta facendo il Ramadan con la sorella in un paesino vicino.

Ramadan Karim e Shabbat Shalom”.

Ride. Risponde “Ramadan Karim e Shabbat Shalom”. Davanti a uno sfondo di velluti ornati d’oro e cristalli luccicanti.

Oggi è Sabato

è luna nuova

è l’ultimo giorno di digiuno.

Domani è Eid al Fitr

è la quarta Domenica di Quaresima

è quasi Aprile

è quasi Pasqua,

è quasi Pesach.

Mentre scrivo alzo un momento gli occhi. Guardo il quadro sopra la scrivania, il quadro di Sahra. Me l’ha regalato lei. Era la sua prova per l’esame di Arte. Sahra, venuta dall’Iran a otto anni, si è innamorata del Latino. Con passione e tenacia ha cercato nuovi significati per testi scritti da vecchi uomini bianchi duemila anni fa. Lo ha scelto come materia scritta e insieme al latino ha scelto me. L’ho accompagnata nel cammino impervio fra gli ostacoli dell’ortografia e del sistema scolastico tedesco. Abbiamo lottato e abbiamo vinto. Insieme.

Ramadan Karim e Shabbat Shalom a tutti, veramente a tutti.

*I nomi sono alterati. Il resto è reale. © Elisa Hermann, 2025. All rights reserved.

Il mattino dopo finalmente la neve

La neve, una liberazione: il cielo riversa i fiocchi leggeri e svuota a poco a poco il suo fardello grigio; una polvere sottile si deposita sulle cose e brilla come limatura di diamante nel sole miracolosamente risplendente.

La neve, una benedizione: il candore soffice attutisce i rumori, addolcisce gli umori, annulla i confini. Le strisce del parcheggio, sacri tracciati della devozione teutonica all’ordine, non sono più visibili, e niente si può fare se l’auto rallenta sul tappeto candido, se lo spazio si dilata. Anche la percezione si dilata, nell’inconsistenza bianca e soffice il mondo assume contorni irreali. La neve dà scacco a tutti gli sforzi che i tedeschi fanno per rendere il mondo regolare e controllabile. La neve rende umana la vita in questa città che corre appresso a se stessa, urla a chi non segue le regole, ti imbratta con il fango la portiera se parcheggi storto e ti aggredisce, invece di chiederti scusa, se non ti sei fatto da parte in tempo.

La camminata marziale diventa un passeggiare felpato, le mamme sorridono e tirano slitte ripiene di bambini verso il pomeriggio gelido ma radioso, le auto rallentano, come mostri resi mansueti.

“Mi piace la neve, perché riesce a rendere gentile questa città grigia e malmostosa.” Pensavo. “Dio ha inventato la neve per ricompensare i popoli nordici del grigio perenne dell’inverno infinito”.

Il paesaggio che vedete raffigura un ritaglio di fiaba fra un’arteria cittadina a lunga percorrenza e l’autostrada urbana sabato scorso, 16 febbraio. Nel frattempo la neve prima si è sciolta, poi è diventata ghiaccio, tipico effetto indesiderato dell’altalena delle temperature. Il brano che avete letto (se avete letto) è invece molto datato e si trova nel romanzo Il mare a Berlino non c’è (2016, Walkabout – Amazon Media). Eccolo qua sotto, casomai davvero la copertina non vi spaventa (non lo scelta io!) o non aveste null’altro per riempire i pomeriggi invernali. Sulla neve però non troverete altro.

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L’augurio degli auguri

Alle Isole Fiji è già Capodanno da un’ora e mezza, mentre noi ci apprestiamo a pranzare. Mentre riordino la cucina, a Sydney hanno già stappato lo spumante, e in Giappone sarà Capodanno mentre io starò guardando l’ultimo raggio di sole dell’anno 2024 (per fortuna oggi c’è il sole), felice di aver ancora tempo per i preparativi di San Silvestro. A San Francisco inizieranno a festeggiare mentre noi, o almeno io, sarò (saremo) di nuovo sveglia (svegli).

Gli ultimi giorni dell’anno li ho trascorsi seguendo gli spostamenti di fuso orario per stare dietro al viaggiatore senza viaggiare. Così, senza notarlo sono scivolata su un asse di eternità quotidiana dove il passato il presente e il futuro coesistono pacificamente (almeno loro).

Il risultato? Le incombenze di fine d’anno somigliano di più a rituali propiziatori e il lavoro che ricomincerà in meno di quarantadue ore non è più l’immagine sinistra che paventavo ancora prima che iniziassero le ferie di Natale. La lista delle priorità sembra essersi ridimensionata da sola, anzi, a dir la verità si è rarefatta, forse svaporata fra le zone-tempo.

Una fisica to go per uso personale? Una nuova filosofia di vita da rotocalco femminile di sinistra? Forse più un ritorno al passato (al presente? Al futuro?). Per i Romani il tempo era un eterno presente scandito dall’alternarsi dei consoli. Del resto tempus in latino significa anche “condizione”. Cicerone distingue fra il tempus amicorum, e i tempora, le cause processuali, per lui situazioni pericolose (più spesso che volentieri), e così chiamerà tempus meus il periodo del suo esilio. E nella poesia tempus sta anche per “viso”, “volto”; infatti, ancora per noi moderni la zona temporale è una parte della nostra testa.

Sempre i Romani inventarono l‘augurium: “presagio”, ma anche “speranza” come l‘augurium salutis, una specie di “augurio degli auguri” che si faceva in tempo di pace per sperare nel benessere futuro. Un benessere (salus) che comprendeva l’intera cittadinanza, la res publica.

A Tokio è quasi mezzanotte e quello che vedete qua sotto è il cielo di Nadi, Isole Fiji, ventiquattro (quarantotto? dodici?) ore fa.

Auguri!




© Elisa Hermann 2024 – all rights reserved


© image Emanuel Hermann – all rights reserved.

Il giorno prima della felicità

Raccontare un evento che il giorno dopo si avvera in una sala di vetro sulla città guardando quella statua dorata che svetta nel panorama è una questione di coincidenze.

“Vedi che è questione di giorni, se non di ore. Scapperà. Lui è un codardo, e sa di esserlo, non come Gheddafi, che si credeva immortale e non era paura nel suo ultimo sguardo, ma incredulità”.

Il regime siriano era una distopia del terrore. Il regno del male assoluto, sadico, arbitrario, reso acciaio blindato e cemento armato, un incubo a occhi aperti.

“Dimenticati la Siria” avevo preso ormai a dire a Yasin, “sei al sicuro qui”. Le speranze della rivoluzione erano affogate nel sangue della guerra civile, soffocate nei gas delle bombe chimiche. Assad aveva solo vacillato per un lungo momento, prima di riprendere le forze, come uno zombie in un film dell’orrore.

Non ci credevo più alla felicità siriana, men che meno se a portarla era un esercito di islamisti sponsorizzati dalla Turchia.

Eppure, davanti a diverse varietà di hummus esageratamente costoso, in questa cupola trasparente a pochi metri dal cielo sopra Berlino, io pronuncio questa frase. “È questione di giorni, massimo ore”. Ridiamo Emi e io e passiamo ad altro, lavoriamo sulle portate che continuano ad arrivare. Alla fine della serata ci tuffiamo distratti nell’aria umida della notte invernale, mio figlio sparisce nella pioggia. A casa Yasin non si stacca dallo smartphone.

Il giorno dopo lo trovo addormentato sul divano, lo sveglio con un bacio. Non lo faccio mai. Di solito lo lascio sempre dormire. Chi è fuggito al terrore deve dormire. Ma oggi stranamente no. È un’aura di serenità quella che mi sembra vedergli attorno? È un Avatar uscito nottetempo da un film americano?

“È scappato. Stamattina. Stanotte hanno aperto le prigioni, hanno aperto Seidnaya”.

È l’8 Dicembre e il muro blindato è crollato, l’incubo è finito, la Siria è libera e io penso che qua la Madonna deve entrarci qualcosa.

Novecentosettantaquattromilacentotrentasei siriane e siriani vivono in Germania. Smistano pacchetti, curano pazienti negli ospedali e negli studi medici, studiano all’università, suonano il pianoforte nella Sala Pierre Boulez, insegnano nelle scuole, cuciono nell’industria tessile, costruiscono le Tesla nel Brandenburgo, scrivono nelle redazioni, consegnano la spesa e soffrono di mancanza di iodio, di crisi di panico, di sindrome postraumatica, di nostalgia, di paura che non smette.

E oggi tutte queste siriane e siriani sono felici. Si riversano nella Sonnenallee, la ‚Strada degli Arabi‘, scandiscono la loro felicità, brandiscono gli smartphone collegati con la Siria e il resto del mondo, sventolano le bandiere, suonano i clacson delle auto in corteo. La luce crepuscolare del pomeriggio nordico risplende di felicità, le decorazioni natalizie oggi brillano per il popolo in festa.

Sullo spartitraffico davanti al grande magazzino ragazzi con il megafono scandiscono “Libertà Libertà che lo voglia o no Assad”, distribuiscono dolci. Qualcuno inneggia “Allah u Akbar!”, io rispondo “’A Maronn v’accumpagna!”. Novecentosettantaquattromilacentotrentasei volti, un unico sorriso chilometrico.

Un giovane mi porge una guantiera di baklava, prendo una pasta: è fresca e croccante, “assaggia anche tu la baklava più dolce della mia vita” dico a Yasin. Ma Yasin non gusta il dolce. È un altro il dolce che assapora: è il sapore della libertà dal masso che lo opprimeva e che stanotte improvvisamente gli è crollato da dosso: una leggerezza infinita, indescrivibile. Qualche giorno dopo il medico gli dirà di smettere i tranquillanti.

Il giorno della felicità il popolo va a liberare i prigionieri.

I prigionieri liberati escono dal carcere e non riescono a guardare dritto, le teste ancora abbassate. Uomini, donne e perfino bambini. Increduli, attoniti, scioccati. Chi si prenderà cura di queste vite rotte? Ci organizzeremo, seppelliremo con dignità i sommersi, aiuteremo i salvati a risorgere… Ma ora è il momento della libertà.

La libertà arriva all’improvviso,quando hai perso le speranze, quando per molti è troppo tardi, quando non ci credi più, come l’ebreo che finalmente lascia il nascondiglio nel romanzo di Erri De Luca Il giorno prima della felicità, e si copre gli occhi accecato dalla luce del sole che non vedeva da anni mentre per le strade sfilano le prime camionette americane.

‚Aprite gli occhi adesso, poco, solo una sbirciata‘. Si mise una mano davanti alla fronte e vide passare l’arrivo della libertà. ‚Siete libero‘ dissi e ci abbracciammo. Tutti si abbracciavano. Il giorno prima della felicità stavamo per mancarla.*

Nemmeno io ci credevo, quando ho detto “vedi che è questione di giorni, se non di ore”. Questo succede il giorno prima della felicità.

© Elisa Hermann-Al Haik 2024 – All rights reserved.

*La citazione è tratta da Erri De Luca, Il giorno prima della felicità, Feltrinelli, Milano 2009.

L’apprendista stregone

Ispirato a una storia realmente accaduta.

Daniel corre.

“Spostatevi sulla destra per rimanere sul percorso”. Daniel pensa: sarebbe bello avere un navigatore anche per la vita, tu inserisci l’obiettivo e lui ti indica la strada, Hey Google, portami all’abilitazione”.

Daniel corre per arrivare in tempo al colloquio con la Fachseminarleiterin (che in italiano è intraducibile perché suonerebbe tipo docente-dirigente-formatrice del seminario di formazione della materia specifica) – alias Signora Rotten-Meier, perché i due anni di supplenza che nel frattempo aveva fatto in tutte le scuole più malfamate della città non bastano, due anni di corse in groppa alla bici per le periferie d’Europa, in edifici fatiscenti in paesaggi di calcinacci e gramigne, due anni di visi deragliati di giovani traboccanti di astio. “Per essere un insegnante vero lei deve svolgere il periodo di tirocinio previsto dalla legge con l’esame finale”, aveva sentenziato imperturbabile il direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale, “le supplenze non contano”. Amen.

“Destinazione raggiunta” intona il navigatore dal manubrio. Il senso dell’orientamento di Daniel non è mai stato forte, ma attualmente è praticamente inesistente. “Lo stress”, dice la psicologa, “è la fonte di tutto quello che le succede, dovrebbe pensare di cambiare mestiere”. È una parola, a ventinove anni, dopo anni di studio e di formazione, e poi a lui piace insegnare. E poi sono loro che sono sbagliati, aveva fatto capire la psicologa. Gli insegnanti non formano, manipolano. Tutto sta dunque nel bypassare questi ultimi mesi di tortura psicologica, di puledri rabbiosi che lanciano palline e a volte bottiglie di plastica mentre la vecchia direttrice del seminario di formazione blatera istruzioni intercalate da espressioni leggermente piccanti che in italiano suonerebbero tipo “che cazzo fa signor Mehl?”.

E ora tocca ascoltare la predica dopo la dimostrazione. A scuola non c’era tempo, così ora Daniel si trova davanti all’Ufficio didattico distrettuale dove risiede la strega quando non si trova appostata all’ultimo banco da dove sputa le sue sentenze.

“Destinazione raggiunta” continua la macchinetta elettronica mentre Daniel la stacca dal manubrio.

“L’introduzione era confusa, nella parte centrale non si capiva quale competenza lei focalizzava nella lezione e mancava completamente la Sicherung”.

Il termine tradotto significa fusibile. Ma in gergo didattico si intende la fase di esercitazione delle competenze che permette al docente di assicurarsi che i puledri siano in grado di applicare la regola, ovvero mettere in atto le competenze acquisite, con espressione moderna. Il “fusibile” alla fine della lezione secondo Daniel era molto chiaro: la verifica al termine dell’esperimento. Da manuale. “No, non basta”, ha gracidato la Signora Rotten-Maier, “ci vuole un prodotto, che so io, un foglietto pieghevole con il riassunto dell’esperimento, un album, una pagina di manuale di chimica”.

Daniel ripercorre con la mente la lezione, 45 minuti di tensione trattenuta, la sensazione di essere in apnea, gli occhi spiritati, annoiati, assenti dei disadattati pronti a esplodere al suono della campanella, la fretta di finire in tempo, il terrore di non finire in tempo.

Mein Moment der Entspannung, recita la scatola della tisana, “il mio momento di serenità” rumina David nella cucina mentre armeggia con il salnitro. Il mio momento di controllo, so maneggiare sostanze esplosive e fabbricare fuochi d’artificio. La tensione si scioglie, un sorriso fiducioso gli si tinge in faccia. La luce diretta della lampada fioca illumina l’opera. Sì, in qualche modo ce la farà. E poi esploderanno i petardi.

Il teleschermo del portatile è un boato di colori psichedelici intermittenti. La lavagna virtuale è imbevuta di vita propria. Il mondo è sparito dietro gli schermi piatti. La vita si vive per interposto digitale. Stamattina sono connessi dieci studenti. Quattro gli attivi. Due risultano presenti ma non rispondono se li interroga, altri due non hanno il microfono, uno solo ha acceso la telecamera, faccia pulita sullo sfondo di cameretta celeste con poster di auto d’epoca sul circuito dell’Avus, si intravede un pianoforte verticale. Gli altri risultano dispersi nella marea analogica della vita di fuori, due camere bagno e cucina da vivere in sette. La Rotten-Meier pontifica dal suo salotto d’epoca con lampadario di cristallo, il quadratino colorato che la incornicia si illumina di immenso ogni volta che fiata.

I deragliati si sono impadroniti dello schermo. Daniel ha perso il controllo. La Rotten esclama in un ghigno sarcastico: “Il gabinetto degli apprendisti stregoni”. Poi tutti si disconnettono. Daniel osserva il proprio viso riflesso, cinereo, luccicanti perle di sudore freddo sulla fronte.

È una giornata primaverile, Daniel corre nel crepuscolo, l’aria è già odorosa di erba fresca.

“I miei complimenti signor Mehl”, aveva ghignato la Rotten-Meier afferrando un bicchiere di spumante marca Cappuccetto Rosso, “Lei ora è un vero insegnante di Chimica e Matematica! Dove andrà a festeggiare?”

Daniel sta al centro di un campo nel mezzo di un parco cittadino. Intorno caseggiati moderni. È già quasi buio.

Daniel si ferma, smonta, allunga il braccio sul portapacchi. Ma non fa a tempo.

È un lampo nel buio. Una nube di salnitro e terra, parti di metallo e di corpo dilaniato. L’esplosione fa tremare le finestre, un vetro si infrange. “Destinazione raggiunta” continua a gracchiare il navigatore, scaraventato sull’erba dal colpo d’aria e miracolosamente ancora integro.

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