Alle Isole Fiji è già Capodanno da un’ora e mezza, mentre noi ci apprestiamo a pranzare. Mentre riordino la cucina, a Sydney hanno già stappato lo spumante, e in Giappone sarà Capodanno mentre io starò guardando l’ultimo raggio di sole dell’anno 2024 (per fortuna oggi c’è il sole), felice di aver ancora tempo per i preparativi di San Silvestro. A San Francisco inizieranno a festeggiare mentre noi, o almeno io, sarò (saremo) di nuovo sveglia (svegli).
Gli ultimi giorni dell’anno li ho trascorsi seguendo gli spostamenti di fuso orario per stare dietro al viaggiatore senza viaggiare. Così, senza notarlo sono scivolata su un asse di eternità quotidiana dove il passato il presente e il futuro coesistono pacificamente (almeno loro).
Il risultato? Le incombenze di fine d’anno somigliano di più a rituali propiziatori e il lavoro che ricomincerà in meno di quarantadue ore non è più l’immagine sinistra che paventavo ancora prima che iniziassero le ferie di Natale. La lista delle priorità sembra essersi ridimensionata da sola, anzi, a dir la verità si è rarefatta, forse svaporata fra le zone-tempo.
Una fisica to go per uso personale? Una nuova filosofia di vita da rotocalco femminile di sinistra? Forse più un ritorno al passato (al presente? Al futuro?). Per i Romani il tempo era un eterno presente scandito dall’alternarsi dei consoli. Del resto tempus in latino significa anche “condizione”. Cicerone distingue fra il tempus amicorum, e i tempora, le cause processuali, per lui situazioni pericolose (più spesso che volentieri), e così chiamerà tempus meus il periodo del suo esilio. E nella poesia tempus sta anche per “viso”, “volto”; infatti, ancora per noi moderni la zona temporale è una parte della nostra testa.
Sempre i Romani inventarono l‘augurium: “presagio”, ma anche “speranza” come l‘augurium salutis, una specie di “augurio degli auguri” che si faceva in tempo di pace per sperare nel benessere futuro. Un benessere (salus) che comprendeva l’intera cittadinanza, la res publica.
A Tokio è quasi mezzanotte e quello che vedete qua sotto è il cielo di Nadi, Isole Fiji, ventiquattro (quarantotto? dodici?) ore fa.
Raccontare un evento che il giorno dopo si avvera in una sala di vetro sulla città guardando quella statua dorata che svetta nel panorama è una questione di coincidenze.
“Vedi che è questione di giorni, se non di ore. Scapperà. Lui è un codardo, e sa di esserlo, non come Gheddafi, che si credeva immortale e non era paura nel suo ultimo sguardo, ma incredulità”.
Il regime siriano era una distopia del terrore. Il regno del male assoluto, sadico, arbitrario, reso acciaio blindato e cemento armato, un incubo a occhi aperti.
“Dimenticati la Siria” avevo preso ormai a dire a Yasin, “sei al sicuro qui”. Le speranze della rivoluzione erano affogate nel sangue della guerra civile, soffocate nei gas delle bombe chimiche. Assad aveva solo vacillato per un lungo momento, prima di riprendere le forze, come uno zombie in un film dell’orrore.
Non ci credevo più alla felicità siriana, men che meno se a portarla era un esercito di islamisti sponsorizzati dalla Turchia.
Eppure, davanti a diverse varietà di hummus esageratamente costoso, in questa cupola trasparente a pochi metri dal cielo sopra Berlino, io pronuncio questa frase. “È questione di giorni, massimo ore”. Ridiamo Emi e io e passiamo ad altro, lavoriamo sulle portate che continuano ad arrivare. Alla fine della serata ci tuffiamo distratti nell’aria umida della notte invernale, mio figlio sparisce nella pioggia. A casa Yasin non si stacca dallo smartphone.
Il giorno dopo lo trovo addormentato sul divano, lo sveglio con un bacio. Non lo faccio mai. Di solito lo lascio sempre dormire. Chi è fuggito al terrore deve dormire. Ma oggi stranamente no. È un’aura di serenità quella che mi sembra vedergli attorno? È un Avatar uscito nottetempo da un film americano?
“È scappato. Stamattina. Stanotte hanno aperto le prigioni, hanno aperto Seidnaya”.
È l’8 Dicembre e il muro blindato è crollato, l’incubo è finito, la Siria è libera e io penso che qua la Madonna deve entrarci qualcosa.
Novecentosettantaquattromilacentotrentasei siriane e siriani vivono in Germania. Smistano pacchetti, curano pazienti negli ospedali e negli studi medici, studiano all’università, suonano il pianoforte nella Sala Pierre Boulez, insegnano nelle scuole, cuciono nell’industria tessile, costruiscono le Tesla nel Brandenburgo, scrivono nelle redazioni, consegnano la spesa e soffrono di mancanza di iodio, di crisi di panico, di sindrome postraumatica, di nostalgia, di paura che non smette.
E oggi tutte queste siriane e siriani sono felici. Si riversano nella Sonnenallee, la ‚Strada degli Arabi‘, scandiscono la loro felicità, brandiscono gli smartphone collegati con la Siria e il resto del mondo, sventolano le bandiere, suonano i clacson delle auto in corteo. La luce crepuscolare del pomeriggio nordico risplende di felicità, le decorazioni natalizie oggi brillano per il popolo in festa.
Sullo spartitraffico davanti al grande magazzino ragazzi con il megafono scandiscono “Libertà Libertà che lo voglia o no Assad”, distribuiscono dolci. Qualcuno inneggia “Allah u Akbar!”, io rispondo “’A Maronn v’accumpagna!”. Novecentosettantaquattromilacentotrentasei volti, un unico sorriso chilometrico.
Un giovane mi porge una guantiera di baklava, prendo una pasta: è fresca e croccante, “assaggia anche tu la baklava più dolce della mia vita” dico a Yasin. Ma Yasin non gusta il dolce. È un altro il dolce che assapora: è il sapore della libertà dal masso che lo opprimeva e che stanotte improvvisamente gli è crollato da dosso: una leggerezza infinita, indescrivibile. Qualche giorno dopo il medico gli dirà di smettere i tranquillanti.
Il giorno della felicità il popolo va a liberare i prigionieri.
I prigionieri liberati escono dal carcere e non riescono a guardare dritto, le teste ancora abbassate. Uomini, donne e perfino bambini. Increduli, attoniti, scioccati. Chi si prenderà cura di queste vite rotte? Ci organizzeremo, seppelliremo con dignità i sommersi, aiuteremo i salvati a risorgere… Ma ora è il momento della libertà.
La libertà arriva all’improvviso,quando hai perso le speranze, quando per molti è troppo tardi, quando non ci credi più, come l’ebreo che finalmente lascia il nascondiglio nel romanzo di Erri De Luca Il giorno prima della felicità, e si copre gli occhi accecato dalla luce del sole che non vedeva da anni mentre per le strade sfilano le prime camionette americane.
‚Aprite gli occhi adesso, poco, solo una sbirciata‘. Si mise una mano davanti alla fronte e vide passare l’arrivo della libertà. ‚Siete libero‘ dissi e ci abbracciammo. Tutti si abbracciavano. Il giorno prima della felicità stavamo per mancarla.*
Nemmeno io ci credevo, quando ho detto “vedi che è questione di giorni, se non di ore”. Questo succede il giorno prima della felicità.